venerdì 26 agosto 2011

Torna Mannarino, con meno rabbia


“Supersantos” è il secondo album del cantautore romano: ottimi spunti ma non convince fino in fondo.
Quando sentii per la prima volta “Il bar della rabbia”, primo album di Alessandro Mannarino datato 2009, ebbi la sensazione che un vuoto si era colmato: a Roma mancava da tempo, ormai, un cantautore originale e al contempo attento alle sue strade, a quei personaggi miserabili e surreali, a quel groviglio di suoni e odori che rende unica questa città. L’album era rabbioso e impulsivo quanto basta. Mannarino era il menestrello con la chitarra che cantava le storie del Tevere Grand Hotel, col piglio surreale giusto a evidenziare tutte le sfumature delle sue pur semplici musiche.

Quell’album era portatore già di uno stile personalissimo, che affiancava alla tradizione da stornello della capitale, ritmi zigani e fisarmoniche balcaniche, con richiami abbastanza espliciti alla world music di Manu Chao e Vinicio Capossela: il tutto impastato in un dialetto romanesco che ti lasciava l’impressione di ascoltare un cantastorie da strada, una musica che parlava di vita vera, vissuta. Un canto che era specchio della realtà.
A due anni di distanza, forse un po’ frettolosamente, magari spinto da logiche discografiche, ecco subito il secondo lavoro, “Supersantos”. Il titolo è un richiamo forte alla strada, al gioco del pallone tra i vicoli, a un qualcosa di estremamente popolare. Infatti è così che vuole essere la musica di Mannarino, una musica che tutti possono ascoltare e cantare.
Il piglio è lo stesso del primo album, e questo può essere allo stesso tempo un pregio e un difetto: sicuramente in questo modo rafforza uno stile già molto personale, rendendo ancor più unico questo “chitararo” del Rione Monti; d’altra parte si ha un’impressione di già ascoltato, una sorta di ripetizione che aggiunge poco al primo lavoro.
E questo è un peccato, considerando che la scrittura dei testi mantiene un’ottima qualità. Sentire per credere Maddalena la quale, innamorata di Giuda, critica Dio mostrandogli la scollatura (“tu che hai fatto un figlio senza far l’amore, che vuoi capirci di questa fregatura?”); o L’onorevole che sembra non essere toccato nemmeno dalla propria morte, e che “finge nulla” di fronte all’ennesima “manifestazione di attaccamento all’insulsa politica dello squadrismo”.
Prima della presentazione dell’album, lo stesso Mannarino aveva dichiarato che sarebbero state “12 canzoni fatte di ritmi forsennati, gonne al vento, vino e lanterne, feste a crepacuore, ballate struggenti, lamentazioni funebri e sciarade che racconteranno il loro viaggio dal tramonto all’alba verso la fine le mondo”. Tutto questo è vero, ma non tiene in considerazione che lo stesso discorso poteva essere fatto per il primo album, mentre con questo “Supersantos” ci si poteva aspettare una più spiccata attitudine a variare la cifra stilistica musicale.
“Supersantos” rimane comunque un album ben suonato, intenso e appassionato, che sicuramente coinvolgerà i nuovi adepti di questo cantastorie moderno. Allo stesso modo sono sicuro che Mannarino in futuro darà molte soddisfazioni, soprattutto quando sarà libero dal non dover dare conferme immediate, anche quando non richieste. Della serie: il secondo album è sempre il più difficile.

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