La
musica “dura” è fuori dalle classifiche e lontano dai movimenti popolari
“Il
rock’n’roll morirà entro giugno”.
La rivista americana Variety, a cui va attribuita questa
affermazione datata 1954, non fu certo lungimirante nel prevedere l’evoluzione
dei gusti musicali del secondo Novecento. In molti altri si sono azzardati, nel
tempo, a dichiarare imminente la morte del rock,
ma nessuno ci ha mai voluto credere, continuando ad imbracciare chitarre
elettriche.
Eppure oggi le classifiche di vendita sono dominate da
musica pop, r’n’b e rap. E anche nei movimenti di piazza, i vari Occupy che hanno invaso l’occidente,
manca una canzone simbolo, un inno. E il rock? La musica dura che aveva
rappresentato la ribellione, la virilità, l’impulsività giovanile? Pare quasi inghiottito dall’indifferenza.
Prendiamo i Coldplay (sempre in
classifica), ad esempio: senz’altro si sono fatti le ossa sul rock, ma riuscireste
a definire la loro musica di oggi diversamente da “pop”? Non che questo
significhi automaticamente una perdita di qualità, ma duettare con Rihanna non
è come cantare a Woodstock, ecco.
Il dibattito, cominciato con un articolo di Gino Castaldo su La Repubblica – titolo
perfetto: “Il
grande silenzio del rock” – sta chiamando a raccolta le più
disparate opinioni, tutte volte a constatare lo stato di salute del paziente in
questione. Castaldo descrive le band rock odierne incapaci di farsi portavoce
di battaglie generazionali,
preferendo un profilo più basso e aristocratico: “un sintomo inequivocabile è l'eterno ciclo delle vecchie band che
decidono di tornare in pista, dai Black Sabbath ai Beach Boys”. Per il rock
è ormai difficile districarsi tra le maglie del mercato.
Ernesto
Assante, dal
suo blog, si concentra invece su un altro punto della questione,
ovvero la perdita di peso specifico della musica: “è un prodotto consumabile di puro intrattenimento, che non chiede a chi
ascolta di aderire a un progetto, di sognare o immaginare mondi migliori o possibili, o anche soltanto di fermarsi
un attimo e pensare”. In poche parole: la musica rock, nel senso di “dura,
elettrificata”, continuerà ad esistere, ma non sembra possa prendersi la
responsabilità di guidare rivoluzioni generazionali.
Effettivamente di band rock, oggi, ne esistono milioni, e
anche di ottima qualità. Ma nessuna incarna quell’anima anticonformista che,
dagli anni ’50 in poi, ha permesso le grandi rivoluzioni culturali del Novecento. Rock’n’roll, hard rock,
progressive, punk, metal, grunge: ripercorrendo le etichette più importanti
attraverso il quale lo spirito del rock ha cambiato forma, sembra ripercorrere
lo spirito di un secolo intero che solo adesso, ascoltando quasi solo Rihanna o Bruno Mars alla radio,
percepiamo estinto.
Peccato. Ma non buttiamoci giù: nessuno ci toglierà la
gioia virile di ascoltare suoni chitarrosi, acidi ed elettrificati. Guarderemo
ancora “Easy Rider” sognando la
frontiera americana con Steppenwolf e
Byrds; o ci ricorderemo di una gioventù sballata con Iggy Pop che canta sulla
pellicola schizzata di “Trainspotting”.
Ma di questi tempi, per dirla con Castaldo, è più
probabile che sia un “tweet” e non
un assolo di chitarra a muovere i nostri sederi verso un futuro migliore.
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