giovedì 25 agosto 2011

"Il Male" degli Albedo


Eccovi un ottimo disco italiano che non ascolterete in radio.
L’effetto Albedo, in fisica, riguarda il potere riflettente di una superficie. In musica, da qualche mese, riguarda la rinnovata fiducia nel rock di casa nostra. Almeno questo è l’effetto che hanno avuto su chi li ha già ascoltati.

Gli Albedo sono un quartetto milanese piuttosto atipico, ma non nel senso strettamente musicale. Infatti suonano un rock energico fatto di chitarre, basso, batteria e tastiere; con una particolare e ossessiva attenzione ai testi; con un’intelligente tendenza alla forma-canzone. Fin qui tutto bene, magari già visto.
Invece gli Albedo se ne sono usciti sul mercato (ma poi capiremo che in questo caso è un termine abusato) con un concept-album chiamato “Il Male” dal packaging eccezionale: in una sorta di cofanetto per dvd c’è, oltre al disco, una collezione di dieci pseudo-cartoline con da una parte degli scatti intimo-metropolitani, e dall’altra i testi delle canzoni.
Tutto sembra perfetto, ma il neo-acquirente ancora non sa che nessuno si occupa della produzione e della distribuzione di questo disco. Ovvero: gli Albedo si sono completamente autoprodotti a spese loro e la distribuzione la fanno ai concerti, perché vogliono che la gente li venga a veder sudare per poi scegliere di comprare.
Detto ciò, a parere di chi li sta ascoltando da mesi (senza riuscire a staccarsene), l’acquisto (con annesso concerto) vale tutti i soldi che spenderete. È difficile trovare canzoni così orecchiabili, forti, rabbiose e intelligenti allo stesso tempo.
Per spargere il sale stilla sangue e dolore rock; A farmi intervistare rimanda un’immagine spietata del cinico mondo della cronaca televisiva; L’importanza di chiamarsi per nome è una perla sensoriale, delicata e profonda già dal titolo; Esistono ancora i pescatori? e Da quando sono serio sono intime e radiofoniche, l’esatta miscela per arrivare al dolore quotidiano di tutti.
Nessuna delle restanti tracce va poi sottovalutata, per un prodotto validissimo e che meriterebbe un investimento da parte di qualche casa discografica intelligente.
Invece gli Albedo sembrano non interessarsi troppo alla compravendita della loro musica. In una chiacchierata, mi dice Raniero Federico Neri (voce, chitarra e autore dei testi) che a loro “non interessa vivere di musica, ma interessa vivere per la musica, a disposizione di tutti.
Il problema è che in Italia non c’è una cultura musicale, e in primis ne paghiamo le conseguenze. A scuola giocano ancora con il piffero, quindi sarebbe importante che gli artisti (veri) si sostituissero agli insegnanti (finti) mettendo a disposizione le proprie opere”.
Vista la dura presa di posizione, mi viene in mente di chiedergli a chi sono rivolte le canzoni degli Albedo: “Siamo da sempre molto egoisti – prosegue Raniero – pensiamo e scriviamo per noi. Deve piacere a noi e per noi deve significare qualcosa. Questo ovviamente ci rende invisibili, per lo più, e rende difficile l’attività del gruppo. Ma tant’è… L’importante è fare poesia con quello che ci circonda, con il paradosso, con il cemento dei cavalcavia e con i reality show: questa è la sfida della cultura moderna. L’errore più grande è stato fottersene e credersi superiori”.
Il cantante parla di cultura e poesia, e mi sembra inevitabile una domanda riguardante le loro influenze letterarie che qua e là nel disco affiorano. Raniero mi parla del “Libro dell’inquietudine” di Fernando Pessoa come un riferimento per lui fondamentale, uno dei testi riscoperti più importanti e densi del ‘900. E poi “i libri di Ammaniti e i film di Sorrentino: ma non siamo un gruppo di intellettuali con la pipa e la barbetta incolta. Ci piace essere efficaci con quello che ci capita a tiro, senza il dizionario dei sinonimi”.
Gli Albedo sono una band di grande qualità di cui l’industria discografica ancora non si è accorta: ascoltarli e parlarne ci ricorda che non siamo tutti così miopi.

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