giovedì 25 agosto 2011

"Hereafter": anche Clint sbaglia


Qualche settimana fa scrissi, su queste pagine, di un 2010 di cinema che ci aveva regalato ben poco di memorabile. Capitano annate sottotono, anche nel mondo delle altre arti, e speravo in un repentino cambio di rotta: all’orizzonte c’era in uscita il nuovo film di Clint Eastwood, regista dalla pluridecennale carriera, che proprio negli anni Duemila ha partorito storie di grande qualità in grande quantità (solo alcuni titoli, tra i tanti: Mystic RiverMillion Dollar BabyGran Torino)

Con le migliori intenzioni sono allora andato a vedere Hereafter, ultima fatica dietro la macchina da presa dell’ex ispettore Callaghan. E mi sono dovuto ricredere: nemmeno il nuovo anno del cinema sembra guidato da una buona stella. D’altronde è giusto dire che anche i più grandi possono avere qualche passaggio a vuoto, e il tema trattato questa volta non solo era molto delicato, ma anche piuttosto innovativo. Sta di fatto che ho avuto l’impressione di assistere a un qualcosa che non rimarrà nella leggenda. Anzi.
Hereafter è un film che vuole indagare il rapporto con la morte dal punto di vista dei vivi. Per riuscirci il regista (che questa volta, a dispetto di molte altre storie, non recita: ed è un peccato!) mette in piedi tre storie le cui strade finiscono per incontrarsi solo nel finale.
C’è la giornalista parigina Marie Lelay (Cècile de France) che, sopravvissuta allo tsunami, torna in patria e passa tutto il tempo ad allontanarsi dalla sua carriera per interrogarsi sul significato delle visioni avute durante l’incidente.
C’è Marcus, ragazzino in una Londra proletaria con annessa madre alcolizzata e depressa (Eastwood vuole strappare lacrime in maniera troppo forzata) che cerca in tutti i modi di riavere un contatto col suo fratello gemello, morto in un incidente stradale. E infine c’è George Lonegan (Matt Damon) che fa l’operaio, ma ha l’ineguagliabile e non meglio spiegato dono di vedere “al di là” della vita, di parlare con i morti.
Date queste premesse, lo spettatore capisce già in che modo si incroceranno le storie: Marcus, dopo essere passato per decine di imbonitori, capisce che solo George può aiutarlo a ricontattare il fratello morto – cosa che puntualmente accade.
Nel frattempo Marie scrive un libro sulle visioni di morte, suscitando l’interesse di George. Il quale sente di provare qualcosa di forte per lei – così, dì improvviso, senza un vero perché, l’amore! Lui le scrive una lettera e si danno un appuntamento: un attimo prima di incontrarla, George si immagina il suo primo bacio con Marie e capisce che d’ora in avanti, per vivere davvero la vita, dovrà fare a meno di indagare l’aldilà.
Il messaggio forte che Eastwood vuol far passare è che non si può vedere “al di là” delle cose senza finire prigionieri del dolore. Meglio viversi con intensità la vita terrena, poiché oltre tutto è indecifrabile e oscuro.
Peccato che per farcelo capire passino due ore e dieci minuti di visioni ambigue (non si capisce mai bene in cosa consiste il contatto di George con i morti), stereotipi (Marie donna in carrierissima, con fidanzato figo che poi la tradisce non appena lei è in difficoltà; una Londra plumbea, già vista nei romanzi di Welsh, ma qui senza ironia), tentativi di commuovere troppo forzati (la scontata morte del gemello di Marcus e il “fortunoso” non coinvolgimento di quest’ultimo nell’attentato alla metropolitana).
Per non parlare del finale annacquato da una storia d’amore nata negli ultimi minuti del film e, proprio per questo, fuori luogo.
Eastwood stavolta, pur indagando un tema molto difficile, mette su una storia senza mordente e poco coinvolgente. Il film non irradia energia, così come le sequenze iniziali dello tsunami potevano predire, e si trascina verso un epilogo poco ingegnoso e senza troppa forza moralizzante – che solitamente è il vero valore aggiunto delle sue storie.
Non lo ricorderemo come il suo miglior film, ma provaci ancora Clint!

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