venerdì 26 agosto 2011

I mille suoni dell'acciaio - Einsturzende Neubauten in concerto


Vi racconto un concerto unico nel suo genere. La pronuncia del loro nome è ostica, come molte delle parole di origine tedesca. Ma la loro musica lo è molto di più. Scordatevi il rock o il pop, i riff di chitarra o i quattroquarti di batteria, star radiofoniche e canzoni da cantare sotto la doccia. Tutto ciò che conoscete o potete accostare al concetto di musica, loro lo hanno scomposto e poi riassemblato in una maniera del tutto originale, che non ha emuli nel corso della storia.

Cominciando trenta anni fa con Kollaps (1981), album avanguardistico e quasi inascoltabile: un lavoro più filosofico-concettuale che prettamente musicale. D’altronde già con il nome della band, all’epoca, segnavano la differenza: Einsturzende Neubauten, si può tradurre all’incirca con “nuovi edifici che crollano” (i Neubauten sono gli edifici costruiti in Germania per la ricostruzione post-bellica, più economici, leggeri ed esteticamente meno gradevoli rispetto alle Altbauten, le case pre-1945). Musica che sfida l’architettura, cose da pazzi. Ma non ci dilunghiamo, che c’è stato un concerto da raccontare.
L’impatto iniziale è straniante: siamo nel tempio della musica romana, l’Auditorium Parco della Musica, sala S. Cecilia, spesso teatro di raffinati concerti di musica classica; mentre sul palco, oltre a un paio di chitarre e una tastiera, tutto assomiglia più al magazzino di un’acciaieria. Il metallo domina in strumenti dalle forme impensabili: turbine, rulli, piatti appuntiti; e poi spranghe e trapani. Gli Einsturzende Neubauten hanno costruito la loro carriera sui suoni prodotti con gli scarti industriali, componendo non-canzoni, sporcandosi le mani. E mi accorgo della grandezza di questa loro integrità concettuale dal mio posto a cinque metri dal palco, dalla mia poltrona in velluto rosso. Mai ero stato così vicino. Ho sempre amato questa band, ma i dischi sono tutta un’altra cosa.
Blixa Bargeld, voce e creatore del progetto (anche se una sola parola riassumerebbe bene la sua identità: demiurgo), entra con i suoi musicisti dopo l’apertura concessa a Teho Teardo, raffinato musicista elettronico italiano che ha firmato colonne sonore magistrali (una su tutte, quella de “Il divo” di Paolo Sorrentino).
La sala è gremita e Blixa comincia con il piglio da crooner con The garden, pezzo oscuro ma cantabile. Gli EN, dopo i disordinati esordi, dagli Anni 90 hanno prodotto sempre più qualcosa che si avvicinasse a una forma canzone più ordinata. Anzi, dal frastuono del rumore si sono mossi sempre più verso la ricerca delle pause che stanno attorno al rumore: questo percorso li ha portati a gestire in modo consapevole ogni originalissima percussione utilizzata, arrivando a comporre pezzi con strutture meno avanguardistiche di quelle degli inizi di carriera, ma raffinati e curati nel dettaglio fino allo sfinimento. The garden ne è un esempio emblematico.
Sulla stessa falsariga lo show ci offre, in ordine sparso, quel capolavoro noir di Sabrina, la malinconica Dead friends (around the corner), e quella che rimane una delle più belle canzoni d’amore che le mie orecchie abbiano mai ascoltato, Youme & Meyou, suonata con una sorta di xilofono costruito con tubi di varie dimensioni, probabilmente fatti di moplen.
Ma le sorprese sono arrivate l’una dopo l’altra. Difficile pensare che una band di ultracinquantenni avesse ancora voglia di fare molto rumore con trapani e turbine. Ma non avevo fatto i conti con l’onestà intellettuale di Blixa e soci, con il loro integralismo artistico, con la loro musica concettuale che evidentemente non ha perso smalto in trenta anni di carriera. Lo spettacolo a cui ho assistito, durato ben due ore e mezza, è sicuramente quello di una delle band più importanti e innovatrici della storia della musica.
Così arrivano le percussioni da acciaieria pesante, favorite spesso dal passaggio alla lingua tedesca. Blixa raramente canta, molto più spesso declama, poiché la sua è un’impostazione principalmente teatrale. Die Befindlichkeit des Landes suona lancinante in uno scenario di rovine, mentre uno sguardo senza speranza si chiede il senso de “la disposizione della terra”; Die Interimsliebenden canta di amanti disillusi, mentre si capisce a cosa devono la loro fortuna i Nine Inch NailsLet’s do it a Dada è un omaggio al rumore e all’anarchia dadaista.
Molti anche i pezzi tratti dall’ultimo album Alles Wieder Offen, datato 2007, di cui bisogna menzionare le stupende esecuzioni di Susej e Nagorny Karabach, quest’ultima con un giro di basso memorabile. Inoltre rimarranno indimenticabili i due bis, con pezzi eseguiti “alla vecchia maniera”, in un crescendo vulcanico di pathos rumoristico. Vengono eseguite le due parti della lunghissima Headcleaner (spacca orecchi in tutto e per tutto), la martellante Yu-Gung e l’infinita Redukt. Alla fine di questo lungo cammino, la perla decadente Total eclipse of the sun illumina il senso di tutta la scaletta: è sembrato di ripercorrere il cammino dantesco al contrario, per rimirare infine una magnifica eclissi di sole.

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