martedì 9 agosto 2011

“Gomorra” fuori dalla valle del perturbante


Per me, lettore costante che solitamente degusta più che divora un libro, leggere Gomorra di Roberto Saviano è stata un’esperienza molto particolare: ricordo perfettamente che per tutto il breve periodo che ci ho messo a finirlo, quando non leggevo quelle pagine mi sorprendevo comunque a pensarci, continuamente. Durante lo studio o il lavoro, mentre mangiavo o sotto la doccia. Davanti alla retina mi passavano senza sosta le immagini crude dei morti, i complotti, le guerre, i ragazzi soldato; mi pareva di sentire la puzza dell’immondizia lasciata a marcire per le strade, o quella che sa di cancro dei copertoni bruciati nei campi di periferia; cercavo invano di trovare i capi dei fili che legano le strutture labirintiche dei clan, i “protagonisti” di questa storia, che si fronteggiano senza esclusione di colpi per poteri tanto immensi quanto taciuti. Insomma, ero distratto dalla mia solita esistenza.


La cosa che più mi tormentava era che quel libro scardinava in un solo colpo tutte le teorie sull’estetica e la piacevolezza della lettura. Ovvero: ciò che stavo leggendo – strategie di potere e decine di modalità di efferati assassinii, uomini congelati in container e altri sfruttati e umiliati nel loro genio, donne in tenuta da guerra: trafficanti di storie che non si limitavano più a rimanere nel sottosuolo, ma strabordavano macchiando col sangue una terra poetica – era da considerarsi una bella lettura o una cosa disgustosa? Le emozioni fortissime che provavo, mentre per giorni non riuscivo a staccarmi da quelle pagine, mi spiazzavano. Mi chiedevo se era possibile, se tutto era vero: ma erano domande arrese, ultimo colpo di coda di meraviglia prima dell’inequivocabile risposta che pure già conoscevo, che mai tardava ad arrivare in qualsiasi telegiornale, o quotidiano, o rivista di approfondimento – spazi in cui il libro sembra espandersi, uscendo dalla canonica forma cartacea e facendosi ancor di più metafora del suo profondo significato.
Capitava che a volte guardavo la cartina, cercavo città e paesi che solo nel libro ho sentito per la prima volta nominare: misuravo la distanza dalla mia città, e quanto più mi rendevo conto della sua brevità, tanto più cresceva l’ansia per un sistema che si espande a macchia d’olio, e che come tale macchia d’infamia il nostro paese.

Ora che ho letto e riletto il libro, ora che quei volti mi pare di conoscerli e odiarli meglio, ora che in quei posti ci sono idealmente passato anch’io, ora che Matteo Garrone ne ha impresso il suo personale sguardo su una pellicola di fortissimo impatto: ora la domanda sull’estetica di Gomorra si è trasformata assieme al mio punto di vista, cercando di trascendere dall’ovvio senso del bello, per spingersi a cercare le ragioni dello strano magnetismo che lega il lettore a questo libro: cosa c’è di così attraente in quelle pagine? Perché un libro del genere arriva come un pugno allo stomaco, come “un’ascia nel ghiaccio”, e non riusciamo a evitarlo?
Per dirla con Wu Ming 1*, con Gomorra si entra in una Valle del Perturbante (dove “perturbante” sta per qualcosa al tempo stesso respingentemente estraneo e attraentemente familiare), in un “luogo” che ci mette faccia a faccia con la mortale serietà di questo libro, e quindi del nostro paese, di qualcosa che ci appartiene. Nel bel mezzo di questa valle cominci a chiederti come sia possibile che Saviano abbia assistito a tutte quelle scene: chi è in realtà l’io narrante che ci accompagna dalle vele di Secondigliano fino in Colombia, da Mondragone ad Aberdeen?

Se si comprende cosa Saviano sta cercando di fare, si raggiungono le corde più profonde del testo, si arriva all’ammirazione per l’autore e a una profonda presa di coscienza dell’urgenza con cui certe parole sono state scritte: si può persino considerare l’io-narrante di Gomorra come una moltitudine di voci gravi filtrate tra la confusione, di occhi che hanno visto e che insieme si levano per chiamare a raccolta gli occhi del mondo che ancora non hanno visto, o che da sempre girano lo sguardo.
Sarebbe inutile considerare Gomorra un libro più o meno bello di qualcun altro.
Gomorra è semplicemente un libro fondamentale. E perciò Bellissimo.

* Per un approfondimento sulle considerazioni di Wu Ming 1 su Gomorra – spunto anche per questo articolo – rimando al saggio “Noi dobbiamo essere i genitori” compreso in: Wu Ming, New Italian Epic, Einaudi, Torino, 2009.

(Pubblicato su Axxonn.it il 3/02/2010)

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