lunedì 10 ottobre 2011

Wilco: "The Whole Love"


Ritorna la creatività nell’ottavo lavoro di studio della band americana.
All’inizio ci sono sincopi algide e robotiche, secche e taglienti. Poi un mellotron alza il sipario sul pezzo vero e proprio: in un’aria vagamente cosmica entra la voce di Jeff Tweedy a cantarci della Art of almost, l’arte del quasi. Il testo surreale ben si sposa col tappeto elettronico e vagamente kraut del pezzo.
E a questo punto siamo di fronte a un dubbio: o c’è stato un imperdonabile errore della casa discografica, che ha inserito in testa al nuovo disco dei Wilco un pezzo dei migliori Radiohead, o Jeff & company sono tornati sulla via della sperimentazione.
Il dubbio si scioglie dopo poco: nella seconda parte di Art of almost – durata: 7 minuti, bella sfida per essere l’inizio di un disco – arriva una sfuriata elettrica quasi ledzeppeliniana. Così capisci che sono proprio loro, i Wilco, quelli capaci di ipnotizzarci, negli anni scorsi, con i 12 minuti di Spiders (Kidsmoke), e allo stesso tempo di farci stendere leggeri su un prato a canticchiare Sky blue Sky.
Provenienti dalla profonda provincia americana (Belleville, Illinois), i Wilco da sempre sono definiti gli alfieri dell’alt-country. Anche se da queste parti nessuno ha capito bene cosa vuol dire. In realtà la loro discografia è piuttosto varia in quanto a suoni e toni: sono passati dalla leggerezza pop di “Summerteeth”, alla forma canzone spigolosa (tra il radiofonico e lo sperimentale) di “Yankee Hotel Foxtrot”; dall’intimo e avanguardistico “A ghost is born”, a una ritrovata serenità del precedente omonimo “Wilco”.
Il filo rosso che lega i loro lavori è forse la ricerca di una canzone che stia in una forma riconoscibile, ma che non suoni banale. Lo spazio per osare c’è sempre stato e lo dimostra anche il pezzo di apertura di quest’ultimo “The whole love”.
Tuttavia, la venatura country dell’etichetta che li accompagna è forse dovuta alla loro provenienza, e ai loro suoni spesso colorati da toni bluegrassI might, secondo pezzo in scaletta del nuovo disco, in questo senso è emblematica. Sulla stessa falsariga si muove Dawned On Me, sporcata da quel rumorismo di fondo tanto caro alla band, che rende anche la più radiofonica delle canzoni un qualcosa di complesso e vagamente indie.
È un disco vario, questo “The whole love”, in cui si trovano sprazzi solari, come il power-pop di Born Alone, il rock vertiginoso di Standing O e lo swing canticchiabile anni’50 di Capitol City. Ma anche momenti riflessivi, dove la band svuota il suo potenziale serbatoio malinconico, dando vita a ballad inquiete e misteriose come Black MoonRisin Red Lung e Open Mind, senza dubbio da annoverare tra le migliori nella carriera dei Wilco. Queste ultime si possono immaginare interpretate di notte, fuori la veranda di una fattoria americana, tra campi di grano; o alla luce della luna sulla sponda di un lago.
Chiude l’album la coraggiosa e ammaliante One Sunday morning (song for Jane Smiley’s boyfriend): dodici minuti in cui Tweedy, accompagnato dal tappeto sonoro soffuso prodotto dalla sua band, sussurra del dramma di un rapporto tra padre e figlio. Mai era stata così esplicita e toccante la vena cantautoriale del frontman dei Wilco.
“The whole love” segna un ritorno dei Wilco in gran spolvero, dopo la quietezza sonora degli ultimi due lavori. Il disco è pieno di trovate, suona creativo e vario, eppure classico. Senza dubbio uno dei migliori lavori di una band che ha raccolto, almeno dalle nostre parti, molto meno di quanto avrebbe meritato. Ma quest’album insegna che c’è sempre tempo per una seconda giovinezza.
Come dimostra anche questa Art of almost live al Letterman show



Pubblicato il 10/10/2011 su Ghigliottina.it

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