lunedì 31 ottobre 2011

Rock On The Road con Sorrentino

“This must be the place” porta il regista napoletano alla scoperta dell’America
L’America è un pistacchio gigante, vanto di una cittadina di provincia e meta di pellegrinaggi estemporanei. Oppure un indiano muto che pretende un passaggio fino a una landa desolata. In America puoi trovare carte da parati orrende in case di vecchie vedove e l’inventore del trolley, una persona che probabilmente ha avuto meno gloria di quanto davvero meritava. Perché nessuno ci aveva pensato prima del 1989? Era tanto semplice…
Paolo Sorrentino si è guadagnato sul campo il regalo per il suo quinto lungometraggio. E il regalo – un budget di 25 milioni di euro per realizzare un film negli Stati Uniti con un cast favoloso – se lo gode tutto. Guarda all’umanità americana con gli occhi meravigliati, la estremizza senza mai renderla inverosimile, la osserva nella quotidiana opera mitopoietica e rimane affascinato da quei dettagli, come ogni turista europeo.
C’era molta attesa per questo “This must be the place”, presentato a Cannes la scorsa primavera. Il regista napoletano ha costruito il film attorno a uno Sean Penn mai visto: il protagonista (Cheyenne) è una rock star in “pensione anticipata”, che vive i suoi giorni in un’immensa casa a Dublino in uno stato di pre-depressione, alimentato dal senso di colpa per la morte prematura di due suoi fan. Il suo stato psicologico è come ibernato: Penn-Cheyenne a cinquant’anni ancora si veste e si trucca come quando saliva sul palcoscenico, e la sua noia è stemperata solo dall’ironica moglie-pompiere Jane (interpretazione formidabile di Frances McDormand).
La morte del padre lo costringe a tornare a New York. Lì scopre che l’uomo da cui si era allontanato negli ultimi trenta anni, aveva convissuto con un ossessione: vendicarsi del gerarca nazista che lo aveva umiliato in un campo di concentramento.
La prima considerazione che viene da fare è quella di una estrema bellezza visiva del film, supportata da una tecnica registica originale e magistrale. Per contro, il lavoro sulla nitidezza e il contrasto dei colori, su inquadrature mai banali, finisce per togliere peso a quello che di solito è il punto di forza di Sorrentino: la sceneggiatura.
Dopo una prima parte girata in Irlanda, lenta, intricata ed elegante, l’approdo in America di Cheyenne trasforma il film in un road movie, con altri ritmi e altri colori. Si badi bene, la sceneggiatura in fondo tiene: infatti l’epilogo (ritrovamento del gerarca nazista e applicazione della legge del contrappasso: sequenza profondamente emozionante e impossibile da scollare dalle retine) chiude sensatamente il film.
Solo che il viaggio intrapreso alla ricerca del carnefice è ricco di distrazioni ed episodi divertenti, il che non consente allo spettatore di creare le giuste premesse per il finale in termini di pathos. Inoltre si ha la sensazione che il fine della caccia all’uomo sia una forzatura, non essendoci mai stata la minima affinità psicologica tra Cheyenne e il padre.
Il risultato è spiazzante, almeno per chi si era abituato a non schiodarsi dalla poltrona nelle precedenti pellicole di Sorrentino. Rispetto a film come Il divo e Le conseguenze dell’amore, che si muovevano in contesti più scuri e austeri, stavolta il regista napoletano gioca di più con i colori dei paesaggi e con i suoi miti (vedi il cameo di David Byrne: bellissimo il complesso piano sequenza che introduce l’esecuzione di “this must be the place”, ma forse poco utile nella sua lunghezza), rendendo così meno solida la sua struttura.
Sean Penn riesce bene  in questa sorta di caricatura di Robert Smith. Eppure stavolta, a differenza dei film con Toni Servillo, il carattere aforistico del protagonista stanca subito. Il senso di tutto è che Sorrentino ha fatto film migliori, veri e propri capolavori. Ma la bellezza stilistica di questo “This must be the place” è comunque opera di un maestro.

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