Arriva
alle nostre orecchie “Mylo Xyloto”, nuovo album di Chris Martin e soci
Difficile che una band come i Coldplay lasci indifferenti. Gli ascoltatori
puristi – ovvero coloro che si vantano di ascoltare la roba
migliore e più ricercata – solitamente snobbano i loro lavori, giudicandoli
spesso come melense costruzioni per scalare le classifiche di vendita. I più “radiofonici”,
quelli che ascoltano le radio più commerciali
per riempire in qualche modo i timpani, usano invece godere indistintamente di
ogni loro singolo, spesso non ricordando bene i titoli delle canzoni.
Questa terribile – ma non lontana dalla verità –
generalizzazione forzata è perfetta per introdurre la band che meno riesce a
scollarsi i pregiudizi di dosso,
positivi o negativi che siano. I Coldplay fanno per lavoro i musicisti: lo
fanno bene, forse c’è chi lo fa meglio, e c’è sicuramente chi lo fa peggio.
Fattostà che per ogni album riescono a piazzare qualche singolone in
classifica, fanno tour mondiali e guadagnano un mucchio di soldi.
Sono quindi una macchina sforna-quattrini che produce
musica senza passione? Niente di più sbagliato: Chris Martin e i suoi scagnozzi sono talentuosi e lo hanno sempre dimostrato. Senza dubbio rimarranno
nella storia della musica europea, e svilire la loro bravura suonerebbe come
un’offesa gratuita per i milioni di fan sparsi per il mondo. Però hanno un
grosso difetto: musicalmente parlando, non si sono inventati niente, e nemmeno pensano di farlo. I Coldplay fanno
musica profondamente pop, che suona senza sbavature, perfetta. Troppo perfetta.
E per questo a volte annoia.
“Mylo Xyloto”
– il titolo non vuol dire assolutamente niente – è il loro nuovo album troppo
perfetto. Quarantacinque minuti di musica senza una sbavatura, con
l’onnipresente supervisione (ma non produzione) di Brian Eno, ormai quinto componente ufficioso della band inglese.
Lanciato oltre un mese prima dell’uscita da un singolo, quell’Every Teardrop Is A Waterfall in cui le
chitarre suonano come cornamuse. Bello sì, ma eccessivamente programmato in
radio – a più di qualcuno sarà venuto il dubbio se non fosse tutto lì.
Invece poi l’album è arrivato davvero, con un secondo
apripista. Paradise, con le sue
tastiere celestiali, è l’emblema della musica dei Coldplay: un pop totale,
ipersuonato e iperprodotto, che
riesce nel miracolo di far suonare, allo stesso tempo, tutto come un meccanismo
preciso al millimetro e tutto onesto, punto di partenza della musica di
qualità.
Il disco non si discosta molto dal suo predecessore, quel
“Viva la Vida” che aveva inaugurato la collaborazione con Eno, cancellando gli ultimi
echi - lontanucci, a dirla tutta - di grezzo rock, per avvicinarsi a un pop più arioso e positivo. Non mancano anche
in questo caso i due tipi di pezzi standard che possiamo trovare nei lavori dei
Coldplay: le ballad minimali e
malinconiche sorrette dal pianoforte (Up
in flames) e quelle poco più vivaci, buone per i falò di tutte le stagioni
(Us against the world, U.F.O e Charlie Brown).
La solita roba, praticamente. Se non fosse per due pezzi che meritano una menzione
particolare. Il primo è Hurts Like Heaven,
sorprendente nel suo sound anni’80 (un po’ Cure presi bene, se vogliamo), che
suona molto simile a Wake me up before
you go go, storico successo degli Wham (Chris Martin che svela la sua anima
yuppie alla George Michael: chi lo
avrebbe mai detto!). Il secondo è Princess
of China, in cui sbuca l’ospitata di Rihanna:
è la canzone con la struttura più originale , ma la produzione ipercurata ne fa
senza problemi cibo da dare in pasto a MTV. C’era bisogno di appiattire anche
una buona idea?
Insomma, un album bello e noioso, che consiglio di
ascoltare – contraddicendo l’apertura dell’articolo - con una ragionata indifferenza.
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